''Un uomo bussa alla porta'' di Jill Warren



Trama: è notte. La pioggia spazza le strade, crepita contro i vetri, sfronda gli alberi. Improvvisamente un uomo bussa alla porta e Barbara apre. Perché è stata tanto imprudente? Che cosa l'ha spinta ad aprire? Attraverso quella porta, infatti, insieme a quell'uomo, entrano incertezza, paura ed amore. è un amore che ha la voce, il volto e i gesti di Albert, insidiato, però, dai pericoli di una fuga senza respiro, nell'ansia di giungere in tempo a fermare qualcosa che se è necessaria alla vita, è indispensabile per l'amore.

Commento di Lunaria:  "Un uomo bussa alla porta" di Jill Warren è un romanzo rosa atipico. In primis, tutta la vicenda, per quanto ancorata al reale, è narrata con un stile strano, che enfatizza e accentua un tono onirico, come se più che la realtà, si stesse raccontando un sogno, o meglio un'allegoria. Difatti non è spiegato perché Barbara ami, fino a consumarsi e ad annullarsi, un uomo con cui non ha mai condiviso nulla e di cui sa a malapena il nome: Albert. Lo stile è così strano che qualche volta, durante la lettura, si ha la sensazione che sia stato scritto da un uomo, e non da una donna (risulta comunque tradotto da un uomo) e non escludo sia stato scritto sotto pseudonimo. I dialoghi sono ridotti all'osso, gran spazio è dato ai monologhi e alle sensazioni di Barbara, che sembra pensata esclusivamente come donna-vittima sacrificale, immolata all'egoismo di Albert, che per giunta la abbandona presto, andandosene senza tante spiegazioni; la donna poi cercando di rintracciare le sue tracce, riuscirà a ritrovare Albert, fino all'epilogo finale (il matrimonio). Ma più che la vicenda e i singoli fatti narrati, sembra che chi l'ha scritta abbia voluto lasciar trapelare un significato allegorico. Personalmente ho avuto la stessa sensazione quando lessi "Una romantica donna inglese" di Thomas Wiseman perché appunto sembra che la prospettiva si svolga secondo una visuale maschile, degli eventi, secondo una modo maschile di relazionarsi e di vedere le cose.
Non è un brutto romanzo, anzi, ma piuttosto atipico nel genere rosa. Più che descrivere un amore (e l'eros) descrive una noia di vivere, un affossamento dell'io e un tentativo, disperato, di non lasciarsi travolgere dall'atrofia individuale, attaccandosi all'altro, quasi per parassitarlo, quasi per sussistere con lui, perché non si è in grado di stare da soli. L'ho trovato profondamente pessimista e cinico in tal senso, caricato di un tono leggermente esistenzialista alla Camus, anche se "esiste il lieto fine".

PER APPROFONDIRE IL TEMA DELLA VIOLENZA CONIUGALE, LEGGETE QUI: https://recensioniromanzirosa.blogspot.com/2020/11/non-e-amore.html

Le pagine più belle:

"Non aveva voglia di leggere, non aveva voglia di ascoltare musica, non aveva voglia di niente. Doveva solo aver pazienza, accumulare giorni su giorni, in attesa che qualcuno pronunciasse il verdetto della sua perfetta guarigione [...] Era immersa in questi pensieri quando il campanello suonò a lungo [...] Non attendeva nessuno. Non conosceva nessuno in quella casa."

"E Barbara? Non se ne andò. Quella bellezza mascolina era così pura, perfetta. Guardava impressionata la vita rifiorire sotto il fiotto caldo, scacciando da quelle membra irrigidite la morte."

"Quando lui se ne fu andato, si promisero di rivedersi, di telefonarsi; Barbara si accorse che era accaduta una cosa semplicissima: lo amava."

"Com'era cambiata. E in così pochi giorni. Il suo coraggio? S'era spento tra le braccia di quell'uomo che non aveva ancora abbracciato? Se era così doveva odiarlo, non amarlo [...] Barbara guardava quell'uomo che le stava di fronte e che aveva visto soltanto una volta. E si diceva che ormai era entrato nella sua vita. Non sapeva come, non sapeva neppure il perché: restava solo quella conclusione che la faceva felice e inquieta nello stesso tempo."

"Pioveva dal pomeriggio. La pioggia turbinava attorno alla casa isolandola ancora di più. Barbara non aveva voglia di andare a letto. Voleva stare sveglia, pensare. Da quando aveva incontrato Albert le sue giornate si svolgevano sotto il segno dell'inquietudine. Non lo aveva più rivisto."

"Quella mattina uscirono dalla vecchia casa, si diressero verso il bosco. Dove il viottolo finiva c'era un'altra siepe; e, in quella siepe, un grosso foro rotondo con un cartello: "Tana della Volpe". Varcarono quella specie di soglia e subito si trovarono dentro una scura e luminosa cattedrale, fatta di fusti e rami altissimi. Il terreno era ondulato. Il vento non riusciva a penetrare entro quelle navate misteriose: si limitava a mormorare in alto, dove il cielo si vedeva a tratti, tanto l'oscura foresta intrecciava stretti i suoi rami. Scesero in silenzio fino ad una piccola valle, risalirono dall'altra parte. Là si diramavano parecchie piste e Albert ne imboccò una, senza incertezza. Adesso calpestavano aghi di pino, rami secchi, foglie. Passando sotto un basso arbusto, Barbara avvertì un fremito, un guizzo veloce. Barbara aveva nei capelli qualche ago di pino. Senza dir nulla Albert si mise a baciarle i polsi, le palme delle mani. Lei era come stordita da quell'intenso profumo, umido e penetrante. [...] Improvvisamente il castello apparve innanzi agli occhi di Barbara. Mura annerite, diroccate. L'incendio lo aveva completamente distrutto; tuttavia se ne potevano distinguere ancora le linee principali: il corpo centrale, una torre e due piccole ali che dovevano aver servito da abitazioni della servitù. Riconobbe in quella rovina, lo scenario dell'incubo di Albert. Un castello in fiamme, le due figurette che si agitavano tra le travi che crollavano."

"Albert ne fu commosso; ma era dibattuto tra la voglia di averla con sé e il timore di ciò che avrebbe potuto comportare la presenza di lei. Taceva. Anche Barbara, dopo quel primo scatto, taceva. Si era ripiegato su se stessa: non avrebbe insistito. Voleva che fosse lui a ripeterle: vieni. A desiderare la sua vicinanza, ad essere convinto che ormai le loro due strade, unite come erano, non si sarebbero divise mai più."

"Albert mise una mano tra i riccioli biondi  di Barbara, la attrasse a sé con molta dolcezza. Non incontrò resistenza, perché Barbara voleva che lui l'attirasse a sé, voleva andargli incontro, sentirsi tutt'uno con lui. Che non avessero più nomi diversi, né corpi diversi ma un nome solo: amore. Un corpo solo e il suo nome era: vita."

"Era tutto come un brutto sogno: ossia era la fine di un sogno. Aveva sognato, ed ora il sogno era svanito. Forse non aveva nemmeno sognato, s'era immaginato lei, quell'amore; lo aveva creato lei, come aveva creato lui  [...] La sua immaginazione le aveva fatto uno scherzo: uno spiacevole scherzo, che ora pagava con quella sofferenza. Col cuore stretto Barbara trovò che la conclusione a cui era giunta era giusta anche se amara: Albert non esisteva; esisteva un uomo sconosciuto, con il quale non c'era nessuna affinità. Si sforzò di credere a questa nuova verità. Solo così sarebbe guarita di lui ancor più presto. Chi non mi ama non mi merita, pensò orgogliosamente. Del resto, avrebbe potuto sperare altro? Quanto tempo era passato da quando Albert aveva bussato alla sua porta? Giorni, pochi giorni. Quei giorni doveva cancellarli, come se non li avesse mai vissuti. Era così che doveva fare: toglierselo dalla mente, sdrammatizzare quanto era accaduto. Perché, si disse ancora, la vita di una persona deve necessariamente dipendere dall'esistenza, dal volere, buono o cattivo di un'altra persona? Sì, il mondo era andato avanti a questo modo per anni e secoli, forse millenni. Ma non era una buona ragione. Bisognava cambiare, lei avrebbe cambiato questa assurda condizione di dipendenza, di sudditanza. Lei sarebbe vissuta, come viveva prima: si può vivere sereni ugualmente. Ma sopravvenne una reazione totalmente negativa. Fu sconvolta da un improvviso eccesso di nausea per l'accaduto. Doveva gridare, doveva urlare, se no non le sarebbe passato. E pianse, urlò con tutta la forza che le rimaneva, soffocando l'urlo sotto le coperte del letto [...] Barbara si liberò con violenza. Gridava "Lei e suo marito. Non me la date ad intendere. Lei è una schiava! Tutte le donne sono delle schiave. Si consolano, certo, si consolano: con una sigaretta. Lei fuma molto. Vuol dire che deve consolarsi molto. Anch'io mi devo consolare. Anch'io. E bevo. Mi piace bere, mi piace molto! [...] che sottomissione, che generosità, che comprensione. Fedeltà, romanticismo, tenerezza... Lo odio, oh come lo odio. Bisogna odiarli gli uomini perché ti prendono, ti lasciano come stracci usati. Ma quando tornano, gli buttiamo le braccia al collo..."

"Albert non la chiamava Barbara. Le diceva: amore. E quando lui diceva amore, s'infiammava tutta, s'inebriava. Amore significava bellezza naturale, semplicità, autenticità, verità [...] I loro corpi si erano uniti, erano un corpo solo. Bellissimo, splendente momento. Ah, se fosse potuto durare sempre, non finire mai. Barbara sentiva il profondo respiro di lui, vedeva il rosseggiare del fuoco; si domandava, negli intervalli della passione, dove si trovasse. Era come sradicata dalla terra e le pareva di volare in cieli fatti di aurore e di tramonti, in continuazione [...] Le fiamme gettavano sulla schiena dell'uomo riflessi rossastri. Lei lo stringeva, non voleva lasciarlo, non voleva staccarsi da lui neppure un minuto."


Nota: due storie simili le trovate qui:
https://recensioniromanzirosa.blogspot.com/2019/05/possesso-di-charlotte-lamb-collezione.html
https://recensioniromanzirosa.blogspot.com/2018/05/notturno-di-charlotte-lamb-collezione.html

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